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Perdersi in rete


novembre 2023



Il caro Rocco Rossitto si è autoprodotto un libro che definisce «un elenco raccontato di luoghi su internet che smuovono la curiosità e provano a farci uscire dalla “bolla” che abitiamo ormai comodamente e da quelle “camere di risonanza” in cui ci piace ascoltare solo ciò che già conosciamo».
Si intitola Perdersi in Rete. Guida pratica per persone curiose, e ho ovuto l’onore di scrivere uno dei due testi introduttivi. L’altro è di Mafe de Baggis, mentre la copertina è di Francesco Poroli.

Il volume si può scaricare gratuitamente, mentre le copie cartacee si acquistano durante le presentazioni.




progetto • Rocco Rossitto
testi • Rocco Rossitto, Mafe de Baggis, Simone Sbarbati

copertina • Francesco Poroli




Una guardia di pattuglia a protezione dell’ineffabile

Quando tengo una lezione — che si tratti di un’università o del workshop di un festival — sono solito divagare molto. Apro e chiudo parentesi, e parentesi dentro altre parentesi, cosa che Rocco, con la sua ironia, sottile e tagliente ma sempre gentile, mi ha fatto prontamente notare.
Per anni ho cercato di attenuare quanto possibile questa tendenza a partire per la tangente, finché a un certo punto ho deciso non solo di accettarla, ma di assecondarla.

Se paragoniamo un discorso a una passeggiata, la parentesi e l’inciso equivalgono a una sosta temporanea — quando ti fermi per un attimo a guardare, quando sbirci dentro a una finestra aperta sulla strada, quando trovi il piccolo dettaglio che risveglia l’attenzione, quando hai appena incrociato qualcosa che ti ha fatto venire in mente qualcos’altro, quando ti imbatti nella stradina che chissà dove porta, e ancora prima di imboccarla immagini già dove potrebbe condurti: un giardino segreto, un panorama mozzafiato, una viuzza pittoresca, un wormhole stile Interstellar.

Ho associato il testo (scritto o parlato) al camminare non a caso: una delle parentesi che apro spesso, quando discuto del mio lavoro davanti a un pubblico, è una citazione tratta dal saggio Storia del camminare, della critica d’arte e attivista statunitense Rebecca Solnit.
Raccontando di come — appunto camminando, e camminando a caso, senza meta — le sia capitato di imbattersi in persone, cose, situazioni piacevoli, fortunate, meravigliose, Solnit scrive che «l’aleatorio, il non riparato, ci permette di trovare quello che non si sa di cercare, e non si conosce un luogo finché questo non ci sorprende» e che «ogni persona che cammina è una guardia di pattuglia a protezione dell’ineffabile».

“Trovare quello che non si sa di cercare” e “guardia di pattuglia a protezione dell’ineffabile” sono due frasi che ho sottolineato con l’evidenziatore giallo, giusto per ricordare a me stesso quanto siano luminose ed esatte (tra l’altro, come a rimarcare la magia dell’incontro accidentale, caso ha voluto che il libro lo trovassi fortuitamente nella libreria dei miei, in cerca di letture durante un sonnolento pomeriggio estivo di qualche anno fa. E il volume stesso è arrivato lì per vie misteriose: sul dorso c’è il marchio di una biblioteca. Che storia ci sarà dietro?).

È in questo errare — nel doppio (che poi doppio non è) significato di vagare e di sbagliare — che sento di abitare la dimensione che più mi appartiene, quella del flâneur, del ramingo che si sposta sopra la mappa senza tuttavia aprirla mai, la mappa, con l’intimo desiderio di violarne i confini, di uscire dal tracciato, di trovare la porta per l’altrove. Questo sia nel mondo “fisico” (IRL, per usare l’acronimo che si adopera sui social) sia — soprattutto — in rete: in quello spazio vastissimo che ci hanno insegnato essere potenzialmente illimitato ma che la maggior parte di noi si limita a frequentare rimanendo al chiuso di poche, gigantesche piattaforme (mi riferisco ovviamente ai social network, costruiti specificamente per farci restare il più a lungo possibile. Vagando, sì, ma sempre dentro ai confini).

Ed è qui che entra in azione lo strumento più potente che la mente umana abbia mai concepito per raggiungere davvero quell’ineffabile altrove: il link. Mattone sul quale è costruito il concetto stesso di web, il link è in effetti un teletrasporto (ci affanniamo da decenni per cercare di capire come muovere istantaneamente i nostri corpi da un punto all’altro e in realtà avevamo già scoperto il modo di farlo con le informazioni e coi pensieri): “Clicca qui” e ti porterò da qualche altra parte. Anche se poi abbiamo trovato il modo di rovinare pure questa meraviglia (“Clicca qui” e… rimani nei dintorni, non t’azzardare a uscire, abbiamo tutto ciò che fa per te: oggetti da acquistare, rabbia da sfogare, nemici da additare, opinioni da confermare).

Ma c’è ancora chi va a caccia di link buoni. Li riconosci perché sono quelli che apparentemente sembrano innocui, talvolta persino inutili, ma sono in realtà ciò che di più prezioso abbiamo nella nostra vita digitale. Perché, appunto, sono finestre che ti fanno affacciare su paesaggi inaspettati, porte che ti mettono su strade in cui non ti era ancora capitato di imbatterti, strade che a loro volta possono essere disseminate di altri link, e dunque altri passaggi e paesaggi, off the grid rispetto agli algoritmi che predicono con precisione sempre maggiore (e sempre più inquietante) cosa ci piace, e che ci costruiscono attorno confortevoli, gommose e appiccicose bolle capaci di dissimulare, attraverso il piacere, ciò che sono davvero: prigioni.

È solo vagando senza meta che possiamo sperare di (letteralmente) evadere, e di imbatterci casualmente in qualcosa di altro da noi, in grado di generare attrito, di sprigionare calore, e dunque energia.
Vagare, quindi, online come offline, è non soltanto un atto li beratorio, ma anche politico: serve a prendersi cura della libertà di andare, fare, pensare. E non si può che essere grati verso chi, andando a caccia di link e condividendo il proprio “carniere”, dissemina i nostri percorsi di potenziali vie d’uscita, di varchi, di soglie verso i marginalia della vita digitale.















© 2022 Simone Sbarbati Il ritratto illustrato è di Marco Goran Romano