Papà, co-fondatore e direttore di Frizzifrizzi.
Scrivo, curo, talvolta insegno, in ogni caso imparo.




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Dispensa nº2


settembre 2014



Fondata da Martina Liverani, Dispensa è una rivista di “generi alimentari & generi umani”, dedicata al cibo e all'universo che gli gira intorno.

Questo secondo numero è dedicato alle mani e il mio pezzo parla proprio di questo: mani che impastano, di notte.



direttore responsabile • Martina Liverani
art direction e impaginazione • Margherita Cristallo
foto di copertina • Lee Anouchinsky






La signora che impastava di notte


E tornando a casa, la notte, un po' brilli, trascinarsi tra le vie di qualche grigio quartiere di periferia per ritrovare la pensilina della circolare notturna — che faccia il giro giusto, stavolta! Per non arrivare alle quattro del mattino fintamente appisolato dentro un bus pieno di barboni occasionalmente gracchianti e turisti inglesi coi loro cappellini di paglia infilati su teste slavate dalle guance rubizze, le stupide t-shirt o le camicie troppo strette e troppo sbottonate, gli shorts a fasciare culoni e gambe bianchicce ben piantate su ciabattine da spiaggia — che chissà se pensavano, nel loro immaginario da cartolina, che a Bologna ci fosse il mare.
Camminare tra i cassonetti messi alla rinfusa, composizioni astratte di abiti sporchi, fuori dai sacchi. Una camicetta a fiori sintetica, giacche lacere con le spalline, scarpe destre o scarpe sinistre, da uomo, il tacco troppo tozzo, un 39 o un 40, modello classico, da pensionato con la minima, pantaloni elasticizzati e sformati che sembrano uscire dalle foto in esclusiva dei reperti di qualche fatto di cronaca nera, le orribili scarpette da bimbo consunte e solitarie, come in un incubo da neo-mamma o un film troppo didascalico contro le violenze sui minori.
Leggere i campanelli, quei nomi arrotolati e esotici, i pezzi di nastro a rimpiazzare vecchi inquilini e nastro su nastro, strati di carta, plastica e colla, a rivelar di flussi migratori e tentata gentrificazione. Ogni cancello con la sua bella buca per la pubblicità (lasciare qui, grazie — l’imperativo passivo/aggressivo della classe media che non c’è più), piene di offerte telefoniche, promesse di fibre ottiche, mutuo soccorso tra badanti rumene, i volantini dei supermercati pieni di offerte — i più richiesti, per letture disperate cammin facendo e primo vero approccio, dettato dal risparmio, a una lingua straniera imparata sulle didascalie di un prosciutto lucido e sudato, della birraccia in lattine formato maxi (bavaria, hollandia, la genericità geografica del cheap), del gelato al sapor di conservanti, del set di cacciaviti in custodie ammaccate di plastica e cartone, dei 66cl di antiforfora in bottiglie dall’inboccatura generosa, dei panni per la polvere.


E poi ti casca l’occhio dentro a un cortile col cancello aperto, bici attaccate alle reti e ai pali, una o due mollette cadute giù da un balcone durante l’ultimo pomeriggio di sole, il neon bianco-azzurro a sorvegliare il portone, la sfarfallio delle lampadine da 3 watt dei campanelli, il tappetino di gomma spostato, l'erba infestante che si
fa largo tra le fessure delle mattonelle, più rigogliosa nei punti dove quei ridicoli surrogati di balcone (tanto piccoli che van bene soltanto per pasti solitari o per celebrare l'eterno e ripetuto rito del ritorno dal lavoro: sigaretta e sguardo perso nel vuoto, aspettando che qualcuno, da dentro, urli «è pronto!» in qualche lingua familiare) scaricano l'acqua piovana lavando via cadaverini d'insetto, cenere, foglie arrivate da chissà dove, portate da un vento notturno che solo gli insonni han sentito soffiare. Qualcuno ha lasciato appesi a quei fili slabbrati calzini, mutande, maglietta, camicia da notte. C'è una tuta da lavoro che gocciola un poco. E morbide vesti dai saturi colori d'oriente: l'oro, il magenta, un azzurro gonfio striato di bianco.
C'è una traballante panchina, laggiù. Una sbiadita lastra di marmo su due pile di mattoni d'avanzo e il muretto, dietro, a reggere il peso di quella rudimentale seduta, ritrovo serale di vedove col cagnolino e quartier generale — dopo scuola — per variopinti bambini messi a cuocere al sole fino al tramonto, ridenti e urlanti nonostante l'immane beffa di quell'arida prigione di cemento a pochi isolati dal verde ombreggiato di un parco, dagli scivoli e dalle altalene, dalla fontanella dell'acqua dove lavare dita appiccicose di gelato e polverose di terra, dalle panchine piene di madri ciarlanti e cariche di merendine — quei pochi padri presenti, condannati al moto perpetuo indotto dal senso di colpa di chi ha poco tempo per stare coi figli — e dal chioschetto gestito dal circolo degli anziani, che se dici «Buongiorno» e «Arrivederci», quando arrivi e te ne vai, ti fanno pure lo sconto, un premio al piacevole diversivo, abituati come sono ai musi lunghi e alle grida, gli «Antonio!», ai «Matteo!», alle «Jasmìne!», agli «Amir!», ai pargoli iperattivi che tutto toccano, tutto aprono, sempre urlano.


Di lontano la furia purificatrice della spazzatrice stradale, il setoloso camioncino che ha l'aria di un veicolo lunare e avanza lento e lampeggiante d'arancio, annunciato dal suo frastuono e dalle voci degli uomini e delle donne in tuta verde che coi guanti portan via le scarpe destre e le sinistre, le camicette a fiori, le vecchie tv, le sedie sfondate di appartamenti ammobiliati affacciati su bui pozzi luce, le cassette della frutta e il loro odore fermentato di campagne lontane, in una lenta processione notturna che lava via i peccati del vivere urbano, ricoprendo di finta rugiada quei rari ciuffi di Erba di Giuda, di spinacio selvatico, di coda di volpe o di mordigallina e procede a zig-zag tra le strade secondarie in balia dei sensi unici.
C'è una palla in fondo al cortile, accanto alla panchina, decorata di violacee principesse lasciate a sgonfiarsi sull'aiuoletta striminzita.
Entrando dal cancello quasi non la noti. La vedi solo se ti siedi. E se ne accorge pure la lucertola, che zompando supera il muretto a caccia di larve e insetti, prima circumnavigando sospettosa la palla poi usandola come improvvisato rifugio di gomma, in attesa di srotolare la lingua sulla prima preda che il caso, la natura e le principesse sgonfie faranno passare di lì.


C'è una luce accesa a pianoterra, fioca. Viene dal palazzo accanto. Dietro la rete, tra i rampicanti, un altro cortile, un'altra prigione per bambini abbrustoliti, altre file di cassette delle lettere, di messaggi in tre o quattro lingue ai condòmini da parte di amministratori pignoli, i motorini con ancora attaccati dietro i box termici per la consegna delle pizze, qualche auto parcheggiata, le rosse lucine a led degli antifurto come sostituti post-moderni delle lucciole, che di qui se ne sono andate già prima dei piani regolatori, e che i bambini sciamanti nei cortili di città non hanno mai visto.
Passato il camioncino che lava le strade rimane nell'aria l'odore fangoso e pizzichino di un acquazzone dopo settimane di siccità.
Rimane il frinire isterico delle cicale, che hanno già cominciato la muta lasciando carapaci secchi color del fieno attaccati agli alberi (e qualche ragazzino farà il giro dei parchi a collezionarli in un barattolo per poi lanciarli addosso, crudele e innamorato, alle amichette che già non se lo filano più, sfilando invece in shorts e
coi loro abbozzi di seno davanti ai gruppetti dei più grandi, ammassati su qualche panchina a prendersi a spintoni e a gridar bestemmie, così esorcizzando i confusi pensieri evocati dai quei corpi a spasso).
Rimane il soffio spettrale del barbagianni, fantasma bianco in volo a bassa quota alla ricerca di topi che poi traformerà in bozzoli pelosi — le borre —resti indigeriti e confezionati come piccoli tesori, abbandonati negli angoli dei palazzi, che solo i più curiosi apriranno esattamente come si apre un biscotto cinese della fortuna, trovando minuscoli teschi e tibie e femori e unghiute zampette.
Rimane, quando l'orecchio si abitua alla natura che solo di notte e solo ai margini, nelle stradine secondarie di periferia, riprende possesso sulla città che mai del tutto dorme, rimane un sospiro solitario, familiare, che sa di fatica antica, di mattine d'estate da silenzioso spettatore — o timoroso aiutante! — durante il sacrale rito della pasta fresca, fatto di maniche arrotolate su braccia arrossate dal lavoro, di zinali di lino bianco e una solida madia di un verde medicinale, con le sue maniglie e le cerniere in ferro battuto decorate in fogge austere, la tavola dove far rotolare il lungo matterello tornito dal nonno (la stessa madia che un giorno qualcuno riutilizzerà con furba irrispettosità come pezzo forte di un salotto).


Lì da dove arriva la luce la serranda è alzata per metà. Dieci dita ossute affondano nel giallo irreale di un impasto che pare emanare quel poco chiarore che illumina la stanza, trascinando l'intera scena fuori dal dominio del sogno.
Le dita riemergono, s'appigliano all'impasto per dar sostegno ai palmi che spingono. Ogni spinta un sospiro, i fianchi ondeggiando al ritmo di una musica fantasma che solo quelle mani e quei fianchi sembrano sentire; una canzone che parla di braccianti e d'amori di pianura, di terra e — per licenziosi doppi sensi — di sesso clandestino tra i canneti immersi nella nebbia o nelle stanze spoglie di un casolare.
A riempire la notte, ora, c’è solo lei, ci sono le sue dita che raccontano di un marito (è lui che s’intravede, là dietro, incorniciato tra una fila di foto sopra alla credenza?), che raccontano forse di una solitudine ma, chissà, magari di anni sereni, da rievocare nottetempo nel silenzio di una cucina di periferia, mentre uno sconosciuto passato di lì per caso sulla via del bus numero 93 guarda le sue mani ma non ne vede il volto né i ricordi. E lei non riuscirà a vedere lui, da lì. Solo le mani, solo loro, non fossero tanto indaffarate, potrebbero.
















© 2022 Simone Sbarbati Il ritratto illustrato è di Marco Goran Romano