Dispensa nº4
ottobre 2015
Fondata da Martina Liverani, Dispensa è una rivista di “generi alimentari & generi umani”, dedicata al cibo e all'universo che gli gira intorno.
Questo numero è dedicato alle anomalie, alle eccentricità, ai freak, agli stravaganti, a chi osa, a chi sbaglia.
Il mio pezzo — accompagnato dalle fotografie di Margherita Cristallo, un reportage sulla Mermaid Parade che ogni anno si tiene a Coney Island — è sulle sirene.
direttore responsabile • Martina Liverani
art direction e impaginazione • Margherita Cristallo
foto di copertina • Lee Anouchinsky
Splash! Una sirena nel piatto
Premessa doverosa. Io una sirena non l’ho mai vista e nonostante quel che si dice dei produttori di tonno in scatola e del cibo che ti rifilano nei ristoranti Ikea — mica mi fido, io, dei qualunquisti che “tanto ‘sti scandinavi son tutti uguali” — credo di non averla mai mangiata, neppure durante il boom che ci fu negli anni ‘80 e nei primi ‘90.
Non avendola mai mangiata (almeno consapevolmente), una sirena, non so che sapore abbia.
Immagino simile a un piatto mari&monti ma non ho alcuna certezza in merito quindi lungi da me fare il saputello e consigliare metodi di cottura, tradizioni casalinghe (“mia nonna la sirena se la faceva pulire dal pescivendolo poi radere dal parrucchiere e la farciva con patate, cipolle rosse di Tropea, aglio, prezzemolo...”), varianti regionali, intingoli, salsine, vini da abbinare (ma sfido anche il più navigato dei sommelier a trovare la bottiglia giusta — navigato in tutti i sensi, dopotutto se non vai per mare...) e comunque prima di tutto, prima di organizzare la cena, mandare gli inviti, scegliere la tovaglia adatta (qua mi sbilancio e suggerisco un blu o un indaco, da profondità marina, meglio se tinta unita, mantenendosi piuttosto sobri nell’imbandigione ed evitando troppe decorazioni per non esasperare il tono kitsch che già di suo una sirena donerebbe al convivio). Prima di tutto, dicevo è il caso di trovarla, la sirena.
L’ultima volta che sono andato al mercato del pesce non ne ho viste, probabilmente bisognerà ordinarle — “Piero, me ne metti da parte tre per venerdì?”.
Se col pescivendolo non c’è un rapporto di fiducia pluriennale conviene tenere a mente di aggiungere un extra per fargliele ripurire dalle interiora anche perché il pescivendolo dovrà necessariamente ingaggiare un macellaio che si occupi della parte superiore (più il parrucchiere). Meglio anche specificare se farsi tenere le teste oppure no (sono ottime in brodo, dicono, ma qua siamo nel campo della pura speculazione e, come ho già detto, non intendo riportare ricette che non ho avuto modo di sperimentare in prima persona).
In caso negativo sarà bene premurarsi di chiedere un piccolo sconto, visti i prezzi che girano su eBay per aggiudicarsi un lotto di corde vocali di sirena, i cui molteplici usi (compresi quelli ehm “ricreativi”) tutti conosciamo.
Ovviamente avere una pescheria di fiducia non è obbligatorio. C’è pur sempre la possibilità di andare a prendersi la materia prima direttamente con le proprie mani.
Vuoi mettere il fascino del mare al tramonto, le lunghe ore d’attesa, il brivido della vittoria solitaria dell’uomo sulla natura?
Oltre ai tappi per le orecchie e a una lunga e robusta corda (più un aiutante per farsi legare al primo palo a disposizione; ma andrà benissimo pure un semplice passante, però occhio al portafogli!) fondamentale è la scelta dell’esca giusta nonché qualche nozione-base di pensiero filosofico, giusto il minimo necessario a dipanare l’eterno dubbio: chi pesca chi?
Risolto il dilemma è il momento di scegliere l’esca adatta.
Dopo essermi documentato a lungo tra i pescatori della riviera adriatica, tra la zona di Marotta e quella di Numana, sono giunto alla conclusione che un bel rossetto sia la soluzione più efficace — un rossetto firmato, mica da quattro soldi, ovviamente resistente all’acqua, o un lip gloss, sempre di marca: niente che puoi portarti a casa con meno di 30/40 €.
Come potrebbero, difatti, attrarre le loro vittime predilette, gli ignari e romantici giovani pescatori, senza un paio di tumide, roride, luccicanti labbra? Siamo mica ai tempi di Ulisse, o di quei rozzi dei vichinghi, a cui bastava mostrare due dita di tette per farli tuffare in acqua e gettarsi direttamente tra le loro grinfie, per finire trascinati in fondo all’oceano in un abbraccio d’amore e morte, tra arti, code e lunghi capelli rossi.
Non essendoci grandi magazzini negli abissi marini e, pur potendo respirare fuori dall’acqua, preferendo non allontanarsi troppo dalle rive natie, l’unico modo che le sirene hanno per trovare rossetti di buona qualità è attraverso le esche, anche se pare che ultimamente le sirene col rossetto siano una vera rarità (a parte qualche selfie di dubbia provenienza che gira sui social).
Difatti oggigiorno, vuoi per i pericoli che comporta, vuoi per la rigidissima regolamentazione del ‘95, la pesca alla sirena è un’attività quasi del tutto scomparsa. Rimangono pochi, vecchi e facoltosi nostalgici a praticarla (mica tutti possono permettersi di buttare a mare interi set di make up Chanel o Dior).
Il resto, per quel poco che si trova, viene tutto dagli allevamenti. Anche qua le informazioni a mia disposizione sono di seconda mano ma chi li ha visitati, quegli allevamenti — per dovere di cronaca: si tratta di animalisti, a dirla tutta preoccupati unicamente per la parte ittioforme; fosse stato solo per quelle vezzose ed esibizioniste donnette attaccate alle povere code, non avrebbero certo speso tutti quei soldi nelle campagne di sensibilizzazione che tutti noi abbiamo visto per mesi in tv, nei manifesti e nei video che giravano in rete — chi li ha visitati, dicevo, parla di veri e propri campi di concentramento, di acquari sovraffollati, di cibo di quarta scelta, ovviamente derivato dal mais transgenico, e di un costante, ininterrotto, penoso canto, capace di logorare l’animo persino al più cinico degli aguzzini.
Da qui tutta la questione, cavalcata per motivi diametralmente opposti dai partiti populisti e dai movimenti di sinistra, dello sfruttamento di rifugiati e immigrati clandestini, pagati una miseria ma capaci di sopportare —per disperazione — l’insostenibile nenia.
Tra l’altro i tre film usciti in appena sei anni, tra il 1984 e il 1990 — Splash - una sirena a Manhattan, con una Daryl Hannah pre-Kill Bill, La sirenetta della Disney, con Ariel, la figlioletta troppo ficcanaso di Re Tritone che i più maligni sostengono sia stata doppiata da Jodi Benson, e Sirene, con una Cher pre-Auto-Tune — danno in qualche modo sostegno alla tesi di qualche malpensante, che cioè si sia trattata di un’abile strategia commerciale e di un gran lavoro di lobby da parte degli allevatori.
Certo, grazie al passaparola non è raro trovare qualche bettola fuori mano in cui poter gustare un’ottima sirena fresca come si preparava una volta, “alla vecchia”, o qualche localino di nicchia dove giovani chef all’avanguardia ne propongono minimali versioni “destrutturate” o elaborazioni iper-complicate che però non ho alcuna remora nel definire “inutili masturbazioni enogastronomiche” per feticisti della criptozoologia. Per quanto mi riguarda, e come già annunciato nella premessa, finora me ne sono tenuto alla larga, più che altro per paura di guastarmi la romantica illusione di trovare nelle carni di quei leggendari esseri il Sapore Definitivo, e poi finire per assaggiare qualcosa che non sa né di carne né di pesce.