Papà, co-fondatore e direttore di Frizzifrizzi.
Scrivo, curo, talvolta insegno, in ogni caso imparo.




︎︎︎ Chi sono / cosa ho fatto
︎︎︎ Diario
︎︎︎ Diario naturalistico
︎︎︎ Viaggi
︎︎︎ Appendice fotografica



︎︎︎ Instagram
︎︎︎ Twitter
︎︎︎ Medium






Papà, co-fondatore e direttore di Frizzifrizzi.
Scrivo, curo, talvolta insegno, in ogni caso imparo.



︎︎︎ Chi sono / cosa ho fatto
︎︎︎ Diario
︎︎︎ Diario naturalistico
︎︎︎ Viaggi
︎︎︎ Appendice fotografica


︎︎︎ Instagram
︎︎︎ Twitter
︎︎︎ Medium





Quando capita Natale. Avventuroso viaggio attraverso venti camini


Epika Edizioni, novembre 2016 



Ho partecipato a un piccolo e generoso progetto ideato da Maurizio Barilli, papà di una compagna di scuola di mia figlia nonché autore e filmmaker.
Il libro raccoglie 20 racconti sul Natale ed è nato per devolvere i proventi a sostegno dei bambini delle zone terremotate del Centro Italia, più precisamente quelli di Arquata del Tronto.

Il mio racconto, ci tengo a sottolinearlo, è una storia vera.

[Gli appunti che si vedono nelle foto li ho fatti in occasione di una lettura organizzata nella scuola elementare di mia figlia]



a cura di • Maurizio Barilli
progetto grafico • Epika Edizioni






Quella volta che ho visto Babbo Natale


Babbo Natale esiste. E non lo dico così, tanto per dire, come fanno i grandi, delle volte, coi loro pistolotti sul sogno, la fantasia, la magia... Babbo Natale esiste perché io l’ho visto.
Giuro che l’ho visto.
Anche se ammetto che poteva pure essere un topo. O una biscia, chissà, perché era già successo che in camera mia entrassero topi e bisce. Abitavo in un paesino in collina, a due passi dalla campagna e a un tiro di schioppo da un bosco minuscolo che tutti chiamavano e chiamano ancora “il boschetto” o “la caccetta”, in quanto la domenica era frequentato dai cacciatori. Così che quando dico “a un tiro di schioppo” lo dico proprio letteralmente: di tanto in tanto sul mio balcone trovavo i pallini metallici che sparavano agli uccelli.
Fatto sta che avevo sei anni e, come ogni Natale, avevo scritto la mia letterina. A dirla tutta quello era forse il secondo anno che la scrivevo, le altre volte era stata mia madre a farlo e dato che, quando la scriveva lei, io non sapevo ancora leggere, non avevo del tutto chiaro come si facesse, se bastasse un “Caro Babbo Natale”, e poi giù, il desiderio, o servissero, chessò, delle presentazioni:

Mi chiamo... e abito in via...
 
qualche formula speciale, alla fine, tipo cordiali salutisuo affezionatissimo e robe del genere. E dovevo dargli del tu o del lei? Era pur sempre un vecchietto!
L’anno prima, se non ricordo male, ero andato subito al dunque, e il regalo era arrivato, quindi pure quella volta decisi di non tirarla per lunghe e scrissi:

Caro Babbo Natale,
voglio il galeone dei Playmobil.

PAM!, così, diretto, senza fronzoli e senza alternative. O il galeone o niente. Oddio, non so se scrissi proprio voglio con la “gl” e Playmobil con la “y” e tutte le consonanti al posto giusto, ma credo che si capisse lo stesso, tanto più che la maestra, a scuola, quando Mirko le aveva chiesto come facesse, Babbo Natale, a leggere ogni singola letterina — visto che erano scritte in tutte le lingue del mondo — lei aveva risposto che Babbo Natale in realtà leggeva nei cuori dei bambini e che i cuori parlavano tutti la stessa lingua, e cioè la lingua dell’amore.
Lì per lì la risposta era sembrata sensata, anche se poi a pensarci bene io non l’ho mai sentito parlare un cuore. Battere sì, parlare no.
E se Babbo Natale leggeva i cuori a che serviva allora scrivere la letterina? Ma lì per lì, come ho detto, la risposta filava. Nessuno si sognò di fare altre domande alla maestra, anche perché poi quando arriva il 24 dicembre non stai più a rimuginare e hai solo due obiettivi: il primo, più che naturale, è ricevere il regalo; il secondo è ovviamente vedere Babbo Natale, e ci vuole tutta la cocciutaggine di cui solo un bambino è capace per provarci anno dopo anno senza riuscirci mai.
Quasi mai, perché io appunto quell’anno ci riuscii.


Il Babbo Natale che veniva a casa mia scendeva dal camino. Ora non più, perché ce l’hanno portato via, il camino, ma a quei tempi ce l’avevamo e Babbo Natale scendeva da lì. Come facevo a saperlo? Per via della fuliggine che trovavamo al mattino sul fondo del camino e sul muretto (anche se stranamente sul pavimento non lasciava mai impronte, forse perché volava o si librava in aria, oppure stava ben attento a ripulire, se gli capitava di sporcare). Per questo, la notte tra il 24 e il 25, il camino lo lasciavamo spegnere prima del solito, e la casa diventava un po’ più fredda.
Io gli mettevo un piattino, davanti al camino, con dentro una tazza di latte caldo con un cucchiaino di miele, dei biscotti e due mandarini, rigorosamente senza semi perché qualcuno mi aveva detto che era meglio così, che era meglio metterli senza semi; non so bene se era perché proprio non gli piacevano quelli coi semi o perché aveva sempre fretta — e stare a spulciare ogni spicchio di sicuro ti fa perdere tempo — oppure per non rischiare che gli andassero di traverso, scatenando una tosse che avrebbe svegliato tutti e magari sarebbe pure stato scambiato per un ladro, lì nel bel mezzo del salotto con un sacco in mano...
Dunque: piattino, latte e miele, biscotti, mandarini. E anche qualche cioccolatino, possibilmente al caffè (stavolta il consiglio era dei miei genitori: «Vedi che ha una lunga notte davanti, col caffé si tiene sveglio», avevano detto una volta).
Il mattino seguente, il giorno di Natale, il rito era sempre lo stesso. Mamma e babbo venivano a svegliarmi e tutti e tre, ancora infreddoliti, andavamo in salotto, dove ci aspettavano i regali sotto all’albero e i resti del piccolo pasto che avevamo offerto a quel misterioso signore panciuto che passava ogni anno e poi se ne andava senza farsi vedere.
Per la cronaca: il latte non lo finiva mai, i cioccolatini, i mandarini e i biscotti sì, lasciando briciole, bucce e incarti colorati. Solo una volta lasciò lì un mandarino intero («Forse tre sono troppi», disse mia madre, «d’ora in poi mettiamone solo due»).
All’epoca andavo a dormire alle nove. Massimo nove e mezza. Poi, come tutti i bambini del mondo, la notte di Natale cercavo di resistere, resistere, resistere, lì, solo dentro al letto, provando a tirare fino a mezzanotte, che è l’ora di Babbo Natale, mica per fare chissà che, solo per vederlo, appena un attimo, e se trovavo il coraggio di uscire dal letto provare pure a salutarlo: «Ciao!», solo quello, e poi di corsa a nanna. Ma come tutti i bambini del mondo a mezzanotte non ci arrivavo mai. Anche adesso, dopo tanti anni, nonostante io abbia, quante? cinque sveglie?, faccio fatica lo stesso.


«Babbo Natale c’ha una polverina che addormenta tutti», mi aveva detto Simone Rossi, un mio compagno di scuola. «La lancia dal camino», aveva anche precisato.
«E se non ce l’hai il camino?», avevo chiesto io, che ancora ce l’avevo ma mi preoccupavo per quelli che invece erano senza camino anche se, sotto sotto, segretamente li invidiavo. Perché se a loro la polverina che addormenta tutti non arrivava, magari ce la facevano a tirare mezzanotte.
«Che c’entra, può lanciartela dalla finestra, la polverina. Lui può entrare dove gli pare, è Babbo Natale!»
Giustamente, il discorso non faceva una piega, altro che quello della maestra e del leggere nei cuori.
Comunque, polverina o no, io ci provavo lo stesso. E dopo aver dato la buonanotte alla mamma e al babbo spegnevo la lampada e facevo finta di tenere gli occhi chiusi, almeno per un po’, fino a quando non sentivo la televisione in salotto, e allora li riaprivo e mi imbambolavo a guardare i miei genitori seduti sul divano a vedersi un film. Non ho mai capito se loro lo sapessero che talvolta li spiavo da lì, da dietro, ma quando ero un po’ giù di morale, anche senza afferrare bene il perché, come capita certe volte, guardare il salotto illuminato sapendo che loro c’erano ed erano svegli — non proprio a portata di mano ma perlomeno a portata di urlo — mi metteva addosso un pizzico di felicità. Anzi, serenità, che non è proprio la stessa cosa di felicità. E tra le due io ho sempre preferito la serenità (già che sono in vena di confidenze dico pure questa: molto tempo dopo, quando di anni ne avevo ormai sui trenta, gliel’ho pure chiesta la serenità a Babbo Natale, e lui me l’ha portata, anche se quel Natale lì, mi pare di ricordare, i mandarini erano finiti prima del previsto e dovetti sostituirli con un’arancia).


Ad ogni modo la notte che vidi Babbo Natale non ho idea di che ore fossero quando mi addormentai. Ma so che a un certo punto sentii qualcosa, un rumore, come di un oggetto metallico che si spostava, e mi svegliai.
Attorno a me era quasi completamente buio. In salotto la Tv era spenta e i miei genitori dovevano essere già addormentati da un pezzo perché mi pareva di sentire i loro respiri: erano lunghi e lenti, da sonno profondo.
Le uniche luci, in tutta la casa, erano quelle colorate e a intermittenza dell’albero di Natale, che stava in salotto a qualche metro dal camino, dopo la Tv. Avevo aiutato anche io a incastrarle tra i rami: luci a forma di lanterna, luci a forma di pannocchie di mais e luci semplicemente a forma di luce. Le accendevamo la sera, prima di cena, e di solito le spegnevano i miei genitori quando andavano a letto, ma la notte del 24 dicembre le lasciavamo sempre accese.
Faceva molto freddo, in casa, quella notte. Lo so perché provai a mettere un braccio fuori dalle coperte, prima di infilarlo subito dentro, perché, confesso, avevo un po’ di strizza con tutto quel buio, e anche se ero mezzo addormentato nell’altra metà della mia testa le ipotesi su cosa potesse aver prodotto quel rumore metallico rimbalzavano come tante palline matte. Un robot gigante che stava per schiacciarci? Un escavatore che cercava di sventrare i muri e portarci via tutti? Una botola segreta sul soffitto e qualcuno che conosceva quel passaggio e se ne stava servendo per entrare? Un ladro vero, magari travestito da Babbo Natale?
Strizzai gli occhi per svegliarmi del tutto e nel momento stesso in cui li riaprii lo vidi. Velocissimo, ZAC!, schizzò davanti alla porta di camera mia. Anche se, a dirla tutta, più che vederlo vidi il movimento, la scia, come quelle strisce che ci sono nei fumetti quando Paperino fila via da zio Paperone che vuole i soldi dell’affitto.
Era passato davanti a me in un lampo. E tutto ciò che sentii fu un rumore di scintille. Certo, lo so benissimo anche io che le scintille non fanno rumore ma io sentii quello, lo scintillìo (come posso descriverlo? Campanelli sbriciolati e ridotti in polvere. Ecco! Sentii della polvere di scampanellìo), e tutto ciò che vidi, con la coda dell’occhio, fu qualcosa di molto piccolo. Qualcosa che aveva addosso un non so che di rosso. Un vestito? Sembrava più una macchia. Ma bisogna tener conto che stavo sdraiato dentro al letto, avevo appena finito di strizzare gli occhi e nella testa c’erano le palline matte che rimbalzavano, coi robot, gli escavatori e tutto il resto. Però ero sicuro di averlo visto, quel qualcosa. E quindi urlai. Urlai come forse non avevo mai urlato prima, neanche quando l’estate precedente avevo visto la lunga biscia passarmi accanto al letto e andare a rintanarsi sotto al cesto dei giocattoli, dove poi trovammo anche quattro bisciottini cuccioli.


«Maaaaaaaaammaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa», strillai. Due secondi per riprender fiato.
«Baaaaaabbooooooooooooooo».
Altri due secondi per riprender fiato, gli stessi che probabilmente servirono ai miei genitori per svegliarsi, registrare le mia urla da qualche parte nel loro cervello e passare all’azione, perché di lì a qualche istante successe il finimondo, con loro che correvano da me, accendendo tutte le luci, io che ancora tremavo nel letto, la casa gelida che si risvegliava d’improvviso e una confusione di domande secche (di mia madre e mio padre: «che è successo?», «hai sognato?», «che hai visto?», «dove?», «è un’altra biscia?») e risposte disordinate e sconclusionate (le mie: «un topo!», «forse Babbo Natale», «un ladro», «gli escavatori», «una biscia, vestita di rosso», «no, forse Babbo Natale») e poi loro che vagavano per la casa, aprendo e chiudendo porte, girando chiavi, cercando intrusi col bastone della scopa in mano.
Quando pian piano tornò la calma fui io, ormai rassicurato dalle luci accese e dai miei genitori svegli e pronti all’azione, che pensai di andare a vedere il piattino lasciato sul camino.
Scalzo, arrivai fino in salotto mentre i miei genitori stavano in cucina a sgranocchiare qualcosa, probabilmente per placare l’ansia di poco prima.
Lì, tra le luci tremolanti dell’albero, lo vidi, il grande pacco blu e rosso, col fiocco pure rosso, proprio sotto i rami più bassi, illuminati di giallo da un paio di pannocchie di granturco a intermittenza. E sul camino, dentro al piattino, briciole, bucce, incarti colorati e un po’ di latte sul fondo della tazza, con qualche briciola che galleggiava ai lati. Babbo Natale era passato, e stavolta aveva pure inzuppato i biscotti nel latte.


Quando tornai a scuola, a gennaio, dopo le vacanze, ovviamente raccontai tutto ai miei compagni di classe, e per qualche giorno fui una specie di eroe. Ero quello che aveva visto Babbo Natale. O forse un topo, o una biscia.
«Ma che i topi e le bisce forse portano i regali?», dicevo.
Ci fu una gran discutere, comunque, su quel che avevo raccontato. Il vero, grande mistero erano le dimensioni della cosa che passò davanti alla mia camera. Forse Babbo Natale era un esserino minuscolo? E tutti i film, e i cartoni animati, i libri, le pubblicità, le storie... Forse dicevano il falso?
La soluzione arrivò ancora una volta da Simone Rossi, che non a caso era il più alto della classe, cosa che gli conferiva una certa saggezza rispetto a noi che al confronto sembravamo dei bimbi dell’asilo.
«Sarà stata la polverina magica», disse. «Se ti sei svegliato significa che non ha funzionato bene. Magari era dell’anno scorso, ed era scaduta. E allora quando ha visto che eri sveglio si è trasformato in qualcosa di piccolo, o si è miniaturizzato per non farsi vedere».
Il discorso, dopotutto, filava. E il galeone dei Playmobil, con le vele, il timone, i cannoni e la bandiera pirata, fu uno dei più bei regali che ricevetti mai. Secondo solo a quella volta in cui Babbo Natale, allora ben attento a non usare polverina scaduta, mi regalò la serenità.









© 2022 Simone Sbarbati Il ritratto illustrato è di Marco Goran Romano