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A una certa tutti i treni vanno a Chiasso


Frizzifrizzi, 2012



Cronaca di una notte passata, mio malgrado, dentro alla stazione centrale di Milano.



testo e foto • Simone Sbarbati








Verso mezzanotte e mezza in stazione, a Milano, la gente normale, quella con un lavoro, una casa, qualcuno da chiamare, qualcuno che magari li aspetta alzato, quella gente lì, a una certa, se ne va. Le borse a tracolla, i portatili sotto braccio, il trolley stretto in mano, scendono dall’ultimo treno e s’affollano sul binario, gli sguardi stanchi ma il passo rapido di chi ha fretta fino all’ultimo, fino alla porta di casa o di un albergo.

Chi rimane, lì in Centrale – come la chiamano i milanesi o chi fa finta di esserlo e sul cv scrive di vivere tra Milano e Canicattì – sono quelli che la casa e la valigia sono la stessa cosa, più qualche turista sprovveduto che non sa che in Italia i treni notturni li hanno sacrificati sull’altare dell’Alta Velocità.
E poi ci sono io, che provo a non addormentarmi perché l’ultima volta che ho passato la notte in una stazione avevo 17 anni, ero in post-sbornia, con le tasche vuote e nessun costoso iPad/iPhone/reflex a rischio furto.

Sono di ritorno da due giorni a Berlino, invitato da una nota azienda del settore automotive per provare una bicicletta elettrica in occasione del lancio di una nuova piattaforma online che si focalizzerà sul concetto di città e su come poter ricaricare metaforicamente, attraverso la creatività, gli spazi urbani. Il trauma, tra una Berlino dove a qualsiasi ora puoi fare di tutto ed un desolante lunedì notte a Milano, è di quelli che faranno alzare il ditino, contrariato, la prossima volta che qualcuno si azzarderà a dire che il capoluogo lombardo è l’unica città europea che abbiamo in Italia.







Dato che il volo di ritorno Berlino-Bologna non era disponibile, l’agenzia che ha organizzato l’evento ha acquistato un Berlino-Linate.
L’aereo atterra in Italia con un ritardo di venti minuti ed io mi preparo psicologicamente ad una notte in aeroporto. Compro un panino e dell’acqua e faccio un giro, mentre i bar, gli sportelli informazioni, quelli del cambio, quelli delle auto in affitto iniziano a tirar giù le serrande.

Entro mezzanotte l’aeroporto è già quasi vuoto. La gente seduta nella zona arrivi aspetta l’ultimo volo, e amici o parenti da riportare a casa.
Non ho voglia di chiamare qualche amico per farmi ospitare né la minima intenzione di farmi fregare 60 euro da qualche albergo-catapecchia vicino alla stazione. Passare cinque ore in un aeroporto, approfittando dell’occasione per lavorare un po’, non sarà certo un dramma.
Mi piazzo su uno dei sedili, tiro fuori l’iPad ed inizio a sbobinare le interviste che ho fatto in Germania.

Dopo pochi minuti arriva un uomo. Mi avverte che l’aeroporto sta per chiudere.
Come chiudere? A Milano gli aeroporti non stanno aperti tutta la notte? Non Linate. All’una tirano giù tutto e ti buttano fuori.
Lui si offre di darmi un passaggio, visto che va in zona. È un autista, di quelli che guidano le auto nere che scorrazzano manager o giornalisti o ricche massaie per la città.
È un pugliese che vive a Milano da più di vent’anni. Mi racconta che si è fatto il culo, che ha fatto il lavapiatti, che ora i ragazzi non hanno più voglia di fare lavori del genere, che una volta Linate stava aperto tutta la notte. Mentre passa tra le strade semi-deserte mi fa notare il deserto. In giro non c’è praticamente nessuno.
«Sembra ci sia il coprifuoco» mi dice. «Le fiere, pure quelle, ultimamente sono dei flop».
Stiamo morendo, ma lentamente.







Arriviamo in stazione e lui mi stringe la mano, mi fa gli auguri per la nottata che verrà e mi consiglia di fare subito il biglietto del treno. «Che sennò la polizia ti sbatte fuori».
Acquistato il Milano-Bologna delle 5,15 mi piazzo su uno dei sedili della sala d’aspetto e mi guardo attorno.
E mentre i cingalesi passano impassibili sulle loro rumorose macchinette che puliscono i pavimenti e i poliziotti girano sul loro golf cart chiedendo a tutti – tranne agli habitué – non i documenti ma i biglietti, sfilano i derelitti, alcuni barcollanti per il vino da quattro soldi, alcuni semplicemente stanchi. Magari della vita.

Dormire, per chi ci prova, i piedi appoggiati sopra ad un borsone, il cappuccio tirato su, la schiena sprofondata nelle nel sedile scomodo, dormire non è mica facile, tra i martelli pneumatici dei muratori alle prese con i lavori infiniti di “adeguamento” e i cingalesi che fanno lo slalom.
Gli unici che gli occhi riescono a chiuderli davvero sono quelli che in stazione quando ci arrivano, lì si fermano.
Gli altri, costretti ad aspettare altre cinque ore per salire su un treno, stanno sul chi va là. E li distingui solo da quello, o dalle scarpe che portano.







Di notte la stazione sembra un laboratorio di scrittura creativa, con l’insegnante che ti invita ad adottare un personaggio tra quelli che vedi e a scriverci qualcosa.

Puoi prendere il ragazzetto della sorveglianza, col pistolone e la testa grossa, che gira in tondo con lo sguardo assorto ma al contempo attentissimo ad ogni movimento, le mani dietro alla schiena, la ricetrasmittente che gracchia ogni tre passi, e lo segui, prima con gli occhi poi andandogli dietro con la scusa di una sigaretta, e magari gli chiedi pure come mai i bagni sono chiusi – fino alle sei, precisa lui – o com’è che fuori dalla stazione c’è una fila di africane che bestemmiano contro un suo collega, che se non gli fai vedere il biglietto non entri, e poveracci quelli che rimangono fuori, ma almeno loro di bagni ne hanno un mondo intero e a noi invece tocca tenercela o imboscarci su per un binario, stando attenti a non farci beccare dal golf cart della polizia.
E mentre la ricetrasmittente gracchia ancora, passando davanti alla vetrina Armani Jeans, coi manichini che da lontano sembrano due neri alti e allampanati che se ne stanno immobili per mimetizzarsi con gli altri manichini e non farsi trovare senza biglietto, puoi chiedergli perché, a una certa, tutti i treni vanno a Chiasso.
«Ce n’è pure uno che va a Voghera» indica lui, «e comunque è un errore di sistema».

E chissà invece dove va il tizio con la tuta che gira tra le biglietterie automatiche. Ne sceglie una e inizia a simulare i viaggi. Scrive una destinazione, guarda orari e prezzi e quando è il momento di pagare torna indietro e ne prova un’altra. Di tanto in tanto se ne va e si piazza davanti al cartellone dove iniziano a spuntare i primi treni.
Torino P.N. 5,15. Mancano quasi cinque ore.
Bologna C.le 5,15. Quello è il mio.
Malpensa Aeroporto Termini 5,25.
Poi niente, tutto vuoto.
Il tizio va ad un’altra macchinetta e viaggia per finta ancora un po’.






Verso l’una arriva uno sulla sessantina, forse molti meno ma portati male, gli occhiali scuri, il volto devastato da non so che, un accento romano. È dinoccolato, è nel suo elemento. Decido che il mio personaggio sarà lui e lo chiamo Er Principe.
Si guarda un po’ attorno, va a parlare con qualcuno tra quelli seduti mezzi addormentati, gesticola, ridacchia. È senza denti o gliene sono rimasti pochi.
Ma poi Er Principe incrocia la strada del Demonio.

Il Demonio è un bestione da 100kg e passa, i capelli color del rame, se sul rame ci butti sopra una palata di terra secca. Accanto a lui c’è una tizia messa male, barcolla e sembra fare un sforzo immane per aprire gli occhi anche solo di una fessura. La tizia ha un piccolo trolley tutto malandato. Il Demonio un valigione blu, deformato e gonfio.
Chissà per quale vecchia storia, ma appena si incrociano il Demonio inizia a minacciare Er Principe, che però se ne frega e scende tranquillo giù per l’inutile rampa mobile.
Il Demonio gli urla dietro: «Non è notte» dice. «Levati quegli occhiali da sole» dice. «Solo gli scemi portano gli occhiali da sole di notte» dice.
«E se vuoi problemi basta chiederli» urla ancora. Sembra finita lì e noi spettatori, dai sedili a due passi da lì, giriamo la testa e torniamo a farci gli affari nostri.

Ma dal piano di sotto arriva ancora la voce da macchietta del Bagaglino d’Er Principe. E allora il Demonio fa uno scatto e corre verso di lui, bloccato all’improvviso e con una prontezza di riflessi inspiegabile da occhi-a-fessura. Un nord-africano che saliva la rampa dall’altro senso si tuffa di là per bloccare pure lui i 100kg incazzati del Demonio. In un surreale abbraccio i tre vanno giù, lenti, per il nastro, mentre quell’altro dal piano di sotto continua a blaterare.
Io e gli altri spettatori ci rilassiamo un po’, cambiando posizione, lasciando finalmente andare sospiri interrotti, sbirciando l’orologio immobile sul cartellone degli orari ma tenendo sempre d’occhio la situazione sulla rampa, dove pure sembrano rilassarsi tutti, mollando la presa sul Demonio, che pare essersi calmato.
Pare. Perché poi scatta giù come una furia non appena il nord-africano e occhi-a-fessura, che a quel punto sollevano le spalle come a dire ma chi me lo fa fare?, lo lasciano andare. Si sente urlare. Si sente il rumore delle botte. Si vedono quattro poliziotti che arrivano di corsa, seguiti da altri tre.
Poi il silenzio. E uno dopo l’altro torniamo tutti ai fatti nostri, chi a dormire, chi a guardare nel vuoto, chi a rollarsi una sigaretta. Due americani, rimasti zitti per tutto il tempo, ricominciano a parlare a voce alta, da americani.







Accanto a me rimangono la valigia piena di bozze del Demonio e il trolley scassato di occhi-a-fessura. Passa una e si ferma a guardare le valigie. È identica ad una senzatetto che c’è a Bologna, ma non è lei. Inizio a fantasticare di figlie illegittime, scambi di culla, destino, e mi viene in mente un film anni ’80 come Affari d’oro.

Di sotto tutto tace. Il totem gigante in mezzo alla sala d’aspetto gira cigolando, stampate sopra ci sono quattro faccione della Cucinotta, che è invecchiata e promuove un siero anti età e ci guarda tutti fisso negli occhi: me, i cingalesi, i pakistani con i borsoni da 40kg, le africane che sono riuscite ad entrare da chissà dove, gli americani che li senti fino al binario 21, quello che simula i viaggi sulle macchinette dei biglietti, quelli che vanno a cercare gli spicci per terra, il guardiano con la testa grossa, un giapponese di mezza età, bello come solo un giapponese bello sa essere, la senzatetto milanese sosia della senzatetto bolognese, che prende le due valigie abbandonate e se ne va.

«Sarà stata n’amica» dice uno qualche sedile più in là del mio.
E ce ne torniamo ognuno ad aspettar le 5,00.












© 2022 Simone Sbarbati Il ritratto illustrato è di Marco Goran Romano