Papà, co-fondatore e direttore di Frizzifrizzi.
Scrivo, curo, talvolta insegno, in ogni caso imparo.




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Il peso della Terra è sempre lo stesso




Chiudere gli occhi. Ma non prima di aver chiuso: la porta, due mandate la chiave piccola, quattro la grande, giù pure il coperchio dello spioncino, ruotarlo in senso anti-orario; le persiane e le finestre, sei in tutto, chiudi-chiudi, chiudi-chiudi, chiudi-chiudi, tira le tende; il rubinetto del gas, anti-orario; il rubinetto generale dell’acqua, orario, poi far uscire quella rimasta - doccia, cucina, bagno; interruttore generale della luce, giù, tlak.
Spegnere il cellulare. Finalmente. Chiudere gli occhi. Nessun rumore, a parte il cuore che batte. A parte il respiro. Che rallenta. Lo stomaco borbotta e la casa scricchiola. Le pareti più del soffitto. Sono seduta al centro della stanza e la stanza è il salotto. Ho tolto il divano, che ora è in cucina, ho tolto il tavolo da pranzo, che ora è in camera. Ho tolto il mobile della tv, la libreria, le mensole con gli orologi, i quadri alle pareti, la polvere dagli angoli, i battiscopa. Ho stuccato i buchi dei chiodi e dei tasselli. Stuccato ogni singola ferita dell’intonaco. Ho spazzato il pavimento e messo la coperta quadrata al centro esatto, parallela e perpendicolare alle pareti. Ho tolto le batterie da telecomandi e sveglie, buttato la spazzatura e scritto il mio cognome, con pennarello, su tutti i sacchetti. nel sacco dell’indifferenziata ho messo pure i vestiti. Calze, mutande, jeans, reggipetto, maglietta, camicia, maglioncino di cotone. Giallo senape. le scarpe fuori dalla porta d’ingresso. Un biglietto per la vicina infilato in quella destra. Uno per il postino in quella sinistra. Identici. Su entrambi ho scritto: non disturbar. Senza la e. Mi piaceva così. E sotto: la mia iniziale, la S.
È il 28 febbraio e vedo anche al buio. Intuisco le forme ma ne non percepisco i volumi, disturbate come sono dal fruscio percettivo. Sembra di stare in un campo di battaglia di pixel sconfitti dalla vittoria delle tenebre, che però non vogliono rassegnarsi a spegnersi per sempre. Oltre allo zero e all’uno c’è il lampeggiare della memoria dell’uno. Chiudere gli occhi o tenerli aperti è uguale? Si riesce a dormire con le palpebre alzate? Mi tocco la palpebra destra. La apro e provo a toccarmi l’occhio, a vivo, ma non ci riesco.
Dovrei iniziare a percepire l’oceano di energia cosmica. Così diceva il libro. Provo a far ondeggiare un po’ le braccia. Tengo gli avambracci sollevati, come fossero sul pelo dell’acqua. La parte interna degli avambracci è delicata, oltre che più chiara del resto. Riesco a sentirle le onde di energia che mi scorrono sotto alle dita? Ho sempre immaginato il buio totale come una massa viscosa è invece è un blocco asciutto, polveroso, che ti secca la lingua e i polpastrelli. Sento il freddo del pavimento attraverso la coperta. Le natiche vanno addormentandosi sotto al peso del corpo. La pancia non sembra più la mia. Non la riconosco, al tatto. Provo ad uscire dal confine della coperta con le dita dei piedi. Due squadre di vermi che s’avventurano nella notte. A cinque a cinque si allargano e serrano le fila all’unisono, avanzando lentamente, bloccandosi un istante prima di portarsi dietro pure i talloni.
In ascolto. Più con il corpo che con l’orecchio. Il pavimento emette vibrazioni basse e quasi impercettibili. Il mondo è in comunicazione totale con se stesso. Non c’è niente che se ne stia separato da tutto il resto. Non a lungo, almeno. Il tempo che ci mette una foglia a cadere, un volo intercontinentale ad atterrare o a finire in pezzi in mezzo all’oceano, una goccia d’acqua a evaporare e a ricadere in qualche altra parte del pianeta in forma di rugiada, pioggia, grandine o neve.
Il peso della Terra è sempre lo stesso. L’ho letto da qualche parte. Miliardi di nuovi umani prendono il posto dei vecchi che la terra prima raccoglie poi consuma e trasforma. L’unica materia estranea è quella che arriva dallo spazio sotto forma di minuscoli frammenti di roccia. Quasi volessimo equilibrare il dono celeste di tanto in tanto fabbrichiamo qualcosa e lo spediamo fuori dall’atmosfera, parcheggiato sulla luna o in costante monitoraggio in orbita sopra alle nostre teste. C’è almeno un satellite a sapere che io sono qui? Mi vede, nuda, alzare e abbassare le spalle a ritmo con il respiro che va rallentando? E se mi vede, c’è qualcuno che controlla le immagini? Un allarme starà suonando da qualche parte? Una tizia nuda al buio, forse vuole uccidersi. Attivare lo zoom a visione notturna. Età tra i trenta e i quarantacinque, capelli corti, neri o castani scuri, abbronzata o mulatta. All’indirizzo corrisponde un nominativo maschile. C’è un numero di telefono. Risulta staccato. È intestato a lui pure quello. Andrea Guder, nato a Gorizia il 6.10.1967, morto ad Alberta, Australia, il 6 dicembre dell’anno scorso. Ultima residenza: l’indirizzo dell’appartamento in questione. I Carabinieri saranno sul posto tra venti minuti. Abbiamo allertato anche pompieri e ambulanza.
Ecco, ora anche i talloni sono usciti dal confine. Si appiccicano al pavimento e si staccano con un sottilissimo rumore di pelle mentre seguono le dita che avanzano come bruchi.





© 2022 Simone Sbarbati Il ritratto illustrato è di Marco Goran Romano