Papà, co-fondatore e direttore di Frizzifrizzi.
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La felicità la misuravamo in finestre




Tredici finestre, avevamo. Undici normali e due porte-finestre. Prima che cominciassero a farsi costruire ville moderniste con enormi finestroni che si aprono lungo tutta la parete, la felicità la misuravamo così, in finestre. Con due, tre finestre eri triste e povero. Una porta-finestra, affacciandosi su un balcone — per quanto piccolo — o un cortile — per quanto angusto, buio, pieno di cicche di sigaretta e cacatine di piccione—valeva come una piccola appendice di allegria. Dalle dieci finestre in su potevi considerarti fortunato e felice. Potevi dire di avere una vita piena. Di luce e di finestre.
Dieci finestre significavano almeno due bagni. Un salotto o una cucina luminosi. Magari entrambi, e un bello studio, se decidevi di non metter su troppa prole. Forse pure una stanza per gli ospiti (la suocera, l’ex-compagno di università, l’amica teatrante e libertina di tua moglie). Oppure una stanza-lavanderia. per non parlare della possibilità di una stanza-guardaroba: chi non si ecciterebbe alla sola idea di camicie che trascendono i confini dell'armadio per conquistare pareti e metriquadri?
E uno specchio: per controllare, al mattino, la tenuta del corpo, dopo tutti quegli anni passati a lavorare sodo, tra riunioni, serate in ufficio, aperitivi, due settimane in riviera, d'estate, coi genitori di lei.
Sopra alle dodici finestre poteva significare che c'era una mansarda, e lì si entrava nel regno delle finestrelle vista cielo e della fantasia. Che potevi metterci in una mansarda? Un tavolo da biliardo? Il bersaglio delle freccette? I videogame da sala giochi come ne Il mio amico Ricky? Un mobile bar! Perché non un mobile bar? Tutto in legno, coi bicchieri che pendono dall'alto, a testa in giù, pronti per esser disseminati dappertutto alla prima occasione. E dopo la festa, la tua prima festa in mansarda, ritrovarli sotto al biliardo, dietro al sofà, persino al gabinetto (perché l'hai fatto mettere il gabinetto in mansarda, senza finestre ma con un bel lavandino e uno specchio che chissà come dava a tutti un'aria funebre): bicchieri ancora pieni, bicchieri usati come posacenere, bicchieri con le tracce di rossetto. Chinandoti a raccoglierli, portarteli poi al naso per sentire il profumo del gin misto alle labbra, quelle labbra. Le labbra che hai assaggiato una volta sola, quel giorno in cui l'azienda era chiusa per l'inventario e suo marito era fuori per lavoro e i bambini a scuola e dovevi solo riportare la teglia dello sformato, solo quella — vai tu, io ho da fare qua, ci metti solo due minuti, aveva detto Sara mentre eri ancora a letto. Quel mercoledì libero, piovuto dal nulla come un regalo, avevi deciso di consacrarlo alla noia. Ma ti sei alzato. Sei andato a lavarti, in bagno (una sola finestra ma orientata est, per aver il sole diretto ogni mattina). Ti sei specchiato, nella stanza guardaroba (altra finestra a est), hai tirato in dentro quel poco di pancia che aveva cominciato a spuntar fuori un paio di anni prima e che non voleva andarsene, nonostante le corse, la sera, quando riuscivi a ritagliarti il tempo per girare attorno al quartiere e sudare, in calzoncini, guardando le case degli altri — Manoni, dodici finestre; Onorato, diciotto, di cui ben quattro porte-finestre e quella terrazza enorme che guarda tutti dall'alto in basso; Giacometti, quindici; Brisa, otto (chissà per quanto); Vitali, lassù sulla sua collinetta con quella squadrata fortezza modernista; Albertoni, dodici finestre; De Luca...





© 2022 Simone Sbarbati Il ritratto illustrato è di Marco Goran Romano